Il portfolio è un non luogo che funge non solo da raccoglitore di lavori ma è anche lo spazio in cui provo a mettere in ordine ciò che di solito resta confuso: i progetti e l’anima che li ha generati.
Quando si fa un lavoro creativo, la capacità di definire le proprie idee diventa indispensabile. Tuttavia, tra la moltitudine di pensieri che vanno ad accompagnare ogni mio processo creativo, comprendere dove nasca e risieda la propria creatività è un compito complesso, quasi tendente all'impossibile.
Forse, la forma più onesta per esprimersi non è quella di un racconto ordinato, ma quella di un discorso simile a un saggio filosofico: un flusso di pensiero continuo, senza un inizio o una fine precisi, ma con una sostanza che si sviluppa nel suo stesso svolgersi.
Voglio partire da una questione che da anni mi accompagna: cosa significa essere un Art Director. È un concetto che trovo ancora difficile da definire, e la difficoltà non sta tanto nel ruolo in sé quanto nel modo in cui esso viene percepito.
Quando qualcuno mi chiede “di cosa si tratta?”, non esiste una risposta definitiva. Ciò che dico dipende da chi ho davanti, perché ogni interlocutore richiede una traduzione diversa dello stesso concetto.
Quella spinta risiede nella capacità di lasciarsi incuriosire, nel trovare in ogni idea, anche la più distante da sé, un punto di contatto. Ogni progetto, per essere autentico, deve lasciare qualcosa in chi lo crea, o lasciare che una parte di chi lo crea venga assorbita dal progetto stesso.
Lavorare in un ambito creativo nasce da una necessità: esprimersi in modi che non siano scontati.
A volte racconto una mia idea, altre volte interpreto quella di un altro. Ma in entrambi i casi cerco di costruire una narrazione, una logica interna, qualcosa che abbia senso non solo per chi mi commissiona il lavoro, ma anche per me.
Mi interessa che ogni progetto lasci qualcosa: non solo un risultato esteticamente riuscito, ma una traccia di esperienza, un pensiero nuovo, anche minimo, che resti dopo il lavoro stesso.
Alla mia nonna, per esempio, dico che decido come devono apparire le cose: mi occupo di rendere tutto coerente e bello a partire da un’idea.
È una risposta semplice, ma non sufficiente.
Se devo rispondere in modo rapido, dico che faccio tutto e niente, ma lo faccio sempre in modo creativo.
Se devo rispondere in modo completo, elenco tutto ciò che faccio, che ho fatto e che potrei fare.
Quando parlo con chi conosce già il mio lavoro, racconto i settori in cui opero.
Quando devo iniziare un nuovo progetto, invece, mi ritrovo a chiedermi davvero chi sono.
Credo che proprio da questa domanda nasca la necessità di raccontarsi. Scrivere senza un interlocutore diretto è un modo per analizzarsi, per dare forma alla propria essenza creativa, con le sue incoerenze, i suoi limiti e la sua continua mutevolezza.
Ho sempre percepito la creatività come una tensione doppia: da una parte la curiosità di arrivare alla fine, dall’altra l’ansia di capire come arrivarci. In questo lavoro si accumulano competenze, strumenti, esperienze, clienti, eppure nessuno di questi elementi definisce da solo la spinta che mi muove.
